Stefano Palmucci, pluripremiato A ̶u̶ t(t)ore dall’intelligente ironia, e il suo ultimo lavoro “La canonica ad Faitèn”

Trent’anni di teatro sulle spalle e un’attitudine innata a cogliere e sviluppare l’assurdo e i suoi innumerevoli, incredibili intrecci. Quegli intrecci che imbastiscono la vita dell’uomo e che, se ben raccontati, regalano sorrisi e risate al pubblico.

Stefano Palmucci è un bravo attore e un apprezzato autore di commedie in lingua dialettale che disegnano la Romagna di una volta, quella verace, piena di figure talmente caratteristiche da essere simpatiche a tutti. Sarebbe riduttivo, però, fermarsi a enfatizzare la simpatia romagnola nelle sue commedie perché i testi di Palmucci sono rappresentati da compagnie di diverse Regioni e trovano ogni volta nuova linfa e spessore. I suoi testi, infatti, siano in dialetto o in italiano, hanno uno spessore contemporaneo trasversale, originale e sottilmente drammatico, tanto da meritare menzioni e premi da parte di più istituzioni.

Avresti mai pensato di diventare un autore di successo quando hai cominciato a scrivere i primi testi per svecchiare le trame delle commedie dialettali?

Macché. Ricordo che i primi testi li firmavo “Pascucci”, perché avevo timore che potessero essere delle schifezze e li avrei così potuti facilmente disconoscere. Alla prima chiamata che mi arrivò da un regista oltre confine (Luciano Spallanzani, di Cognento – RE), dieci anni fa, pensai ad uno scherzo. Mai avrei pensato di arrivare, ad oggi, ad oltre 1380 rappresentazioni (con di mezzo il Covid, altrimenti….), sparse per tutto lo Stivale, in Svizzera e due volte negli Stati Uniti, da parte di Compagnie amatoriali, ma comunque anche storiche e fortemente strutturate. Tra l’altro, in questi anni, mi sono concesso anche diversi premi, che non saranno Oscar né Telegatti, ma comunque testimoniano apprezzamento e stima, da parte di esperti del settore.

Raccontaci lo Stefano ragazzo, come si è avvicinato al teatro e quale tipo di pulsione ha sentito dentro quando invece, ormai adulto, ha cominciato a scrivere storie e testi da rappresentare sul palco.

Io ho cominciato a recitare a scuola, facevo le imitazioni dei professori, un classico. Poi è capitato che a Borgo Maggiore, i ragazzi della Parrocchia che al tempo frequentavo mettessero in piedi una commedia, su iniziativa della mitica Rita Gualandi, e con la direzione artistica di Bruno Masi. In quella occasione ho scoperto che col teatro potevano trovare piena realizzazione le mie esigenze espressive. Poi, da lì, il passo al Piccolo Teatro Arnaldo Martelli  – la storica Filodrammatica sammarinese – è stato sequenziale. In quel sodalizio sono cresciuto, maturato, ho frequentato tanti bravi attori e nel momento in cui i migliori copioni di dialetto romagnolo (che il Teatro Martelli metteva tradizionalmente in scena in occasione della Festa di Sant’Agata) stavano languendo, mi sono buttato anche nella scrittura, riversando sulla carta quello che in venti anni di pratica ed esperienze sul palco avevo immagazzinato. Vedere rappresentati i propri testi è sempre una soddisfazione enorme. Pensare che in questo momento ci sono persone che stanno mandando a memoria una parte, cercando di decifrare stati d’animo ed emozioni di un personaggio che tu hai costruito nella solitudine e silenzio del tuo studiolo qualche tempo prima, mi fa sempre una certa impressione.

La scrittura ti ha catturato irrimediabilmente o senti ancora il bisogno di esprimerti davanti al pubblico, interpretando le vicissitudini dei tuoi personaggi sulla scena?

Sono due condizioni molto diverse. Recitare è divertente, stimolante, soprattutto quando hai accanto degli attori che stimolano e scatenano il tuo piccolo o grande talento. L’interazione con altri bravi interpreti e l’alchimia che si crea sul palco, giungere a “giocare” con il pubblico, quando percepisci di averne catturato gli umori è una esperienza unica ed esaltante. Però è faticoso. Richiede molto impegno, non solo personalmente, ma in coordinamento con altre persone. Scrivere è molto più comodo. La tensione e lo stress giungono fino all’arrivo della prima risata, o del primo applauso. Poi tutto passa.

“La canonica ad Faitèn” è nata da una tua proposta oppure ti è stata commissionata?

“La Canonica ad Faitèn” mi è stata commissionata circa un anno e mezzo fa dagli amici dell’Ente Cassa di Faetano, in occasione delle celebrazioni del centenario della Cassa Rurale di Faetano, oggi Banca di San Marino. Erano alla ricerca di eventi che potessero celebrare e ricordare le radici del loro Istituto. Il bello è che io risposi non so scrivere su commissione, ho almeno una decina di progetti arenati dopo poche pagine, non so perché. Se volete ci provo, a vostro rischio. Mi riempirono di materiale che mi misi a studiare con buona lena, tanto che finii per appassionarmi e il testo alla fine venne fuori nella sua completezza. Il fatto che esiste copioso materiale sulla vita della Banca sin dai suoi esordi, ma praticamente nulla sulle vicende che portarono alla costituzione mi stimolò. Cominciai a pensare alle vicende che avrebbero potuto precedere quel momento, probabilmente qualcuno lanciò l’idea, qualcuno aderì subito, altri dopo, probabilmente tra discussioni, dubbi, ipotesi, forse ripensamenti. Qualcuno, magari con interessi diversi o contrapposti, forse tentò di scongiurarne la costituzione.

Che tipo di lavoro hai dovuto fare per dare vivacità, calore e organicità a un avvenimento reale che di simpatia e creatività ha ben poco, ma ha caratterizzato la vita di un Castello e formato una realtà, la Cassa Rurale Depositi e Prestiti di Faetano, divenuta nel tempo un attore importante nel settore finanziario, imprenditoriale e sociale del Paese?

La vicenda narrata è inventata, ma comunque molto plausibile, perché gli aspetti storici, sociali, culturali, ambientali e geografici che vi ruotano attorno sono rigorosissimi. Quattro, dei sette personaggi della commedia, sono realmente esistiti. Ma se non vigesse il severo paralogismo in base al quale la commedia dialettale, per propria natura, “deve” fare ridere, sarebbe troppo facile. E allora, per espandere l’effetto comico, solitamente pesco dalla mia “cassetta degli attrezzi” di autore dialettale una serie di meccanismi collaudati (ironia, sarcasmo, satira, esagerazione, iperbole comica, ecc.…) e vedo se sono applicabili. Per fare un esempio, in questo caso una sana spruzzata di umorismo nero ben si adatta ad esorcizzare la miseria diffusa e il sentore di morte incombente al tempo della vicenda. Un po’ mi è dispiaciuto dover mettere in ridicolo aspetti di quei personaggi che hanno contribuito con il loro acume e lungimiranza a costituire un istituto bancario che ancora oggi sopravvive e prolifica, ma l’esigenza ineludibile di spettacolarizzare e comicizzare le loro vicende non mi ha lasciato scelta.

La storia più recente di San Marino ti ha mai ispirato trame da sviluppare e portare all’attenzione del pubblico?

Purtroppo l’attualità mal si presta ad un progetto del genere, perché di solito tra l’ideazione e la messa in scena intercorre almeno un anno, e le vicende della cronaca perdono irrimediabilmente di freschezza e attualità. Inoltre una commedia ha il limite che deve apparire plausibile (per esempio il nome del pilota di aeroplani Remo Mori o, per converso, Mori Remo [mori-remo] seppure esistito, non si può usare in una commedia perché ancorché reale, non è credibile), e sempre più frequentemente le vicende dell’attualità – specie sammarinese – superano l’ambito del “plausibile”.

Qual è il sogno a cui vorresti dare concretezza su un palco e quale, invece, il prossimo impegno che vede protagonista te o una tua commedia inedita?

Per il momento sono molto concentrato su questo progetto, e fino al debutto del 24 settembre al Nuovo di Dogana non ho modo neppure di respirare. Poi vedremo se vi saranno seguiti. Dopodiché, il mio sogno resta quello di vedere sparire questo maledetto virus e poter tornare a godere di “pienoni” d’altri tempi, col pubblico stipato in ogni ordine di posti. Vorrei tornare ad avere in cartellone una commedia al giorno, come – quasi – succedeva negli anni pre-pandemia. Mi piacerebbe anche che questa Compagnia teatrale che si è formata per l’occasione (la “Compagnia della Corona”) potesse continuare il suo percorso. Il testo inedito è già pronto, l’ho confezionato attingendo a molte delle mie esperienze professionali. Si intitola: “L’Ambasciatore in ambasce”, due atti comici di Stefano Pascucci. Anzi, no: Palmucci.

“La canonica ad Faiten” andrà in scena venerdì 24 e sabato 25 settembre, al Teatro Nuovo di Dogana ore 21.00 – PER INFO E PRENOTAZIONI: Tel. 338 3987208 – https://www.ecf.sm/commediadialettale