È stata fra le candidate al David di Donatello 2020 come “Migliore attrice non protagonista” per l’interpretazione del personaggio di Valeria Corradini nel film “Solo cose belle” di Kristian Gianfreda. Ma l’abbiamo vista anche “dal vivo” in più occasioni: al teatro Titano, qualche anno fa, ha interpretato “Finisce per A – Soliloquio tra Alfonsina Strada, l’unica donna al Giro d’Italia del 1924, e Gesù” e “44. Il coraggio della scelta” sulle staffette partigiane (entrambi scritti da Eugenio Sideri per la regia di Gabriele Tesauri). E agli Orti Borghesi di San Marino, lo scorso agosto, quando assieme a Mara Di Maio ha messo in scena “Elettrosciocche”. Il personaggio di Valeria Corradini, Patrizia Bollini lo descrive così: “Una donna con diverse sfumature, sia ironiche che drammatiche e la caratteristica più affascinante dal punto di vista attoriale è stata quella di interpretare la sua evoluzione emotiva: costretta dagli eventi a modificare il proprio punto di vista scoprirà un modo nuovo di vedere le cose e la sua vita cambierà radicalmente”.
Patrizia, fare l’attrice è un lavoro o un mestiere?
“(ride) Credo sia un mestiere perché fai quello che ti piace e così non devi ‘lavorare’ un solo giorno nella tua vita”.
Come e perché hai intrapreso questa strada?
“Ho sempre avuto molta curiosità verso questo mondo, ricordo che da piccola non capivo la differenza tra finzione e realtà. Mio babbo era un appassionato di film western e mi capitava qualche volta di vedere assieme a lui qualche scena nelle quali a causa di lunghe sparatorie o assalti al fortino, molti cowboy venivano uccisi. Così pensavo che se una persona voleva morire poteva farlo in quelle pellicole. Per me il teatro, il cinema e la televisione sono una finestra sul mondo, una ricerca di respiro e di libertà. Una sorta di crescita e di emancipazione. Anche per questo mi sono iscritta e ho preso il diploma di attrice presso la ‘Alessandra Galante Garrone’, la scuola di teatro di Bologna. Il teatro mi è sembrato un bel modo per uscire dalla realtà.”.
Oltre all’arte, sappiamo che sei una persona sportiva. In quali discipline ti sei cimentata?
“Da ragazzina ho giocato per alcuni anni a pallavolo: ero portata anche perché sono alta (1,75 m. ndr). Tra le mie coetanee ero la più brava e così mi hanno mandato a giocare con quelle più grandi. Rispetto a loro ero una schiappa (ride). Poi ho fatto quattro o cinque anni di karate sino alla cintura blu. So anche andare a cavallo. Poi mi piace il trekking. Nel 2018 ho fatto il Cammino di Santiago de Compostela: mi sono ‘regalata’ un mese di tempo. Sono partita da Pamplona e, dopo aver raggiunto Santiago, sono arrivata a Finisterre. Un viaggio meraviglioso, nella sua semplicità: 700 chilometri in tutto, 500 a piedi e 200 in bicicletta”.
Fai teatro, cinema e televisione. Quali sono le differenze?
“Per fare teatro servono competenze che vanno acquisite e per le qual si deve lavorare parecchio, a partire dalla voce e da una buona dizione, se reciti e non ti sentono fino all’ultima fila non puoi stare su un palcoscenico. Sul palco cerchi e avverti la presenza della scena e del pubblico, devi essere padrona del tuo mestiere e avere la consapevolezza di tutto quello che accade in te e attorno a te. Nel cinema e nella televisione è diverso: ti senti dentro a una macchina bellissima ma sei un pezzo del puzzle. In tv si fa tutto più in fretta e i tempi di produzione sono più brevi e probabilmente ne risente anche la qualità. Nel cinema deve essere tutto estremamente curato, può capitare che per girare due scene ci si dedichi anche tutto il giorno”.
Cosa ne pensi del blocco dei cinema e dei teatri in Italia?
“Sicuramente la salute delle persone viene prima di tutto però come ‘categoria’ i limiti ci hanno penalizzati. Tutti i teatri si erano allineati alle disposizioni ed avevano adottato le misure anti-Covid. Per i teatri privati, quelli ad esempio da 100 posti, arrivare a una capienza massima di 30 spettatori era già insostenibile dal punto di vista economico. I teatri stabili, sopravvivono grazie alle sovvenzioni ma si trovano ugualmente in grande difficoltà. Siamo rimasti stupiti dalla chiusura perché era stato fatto tutto per rendere il teatro un luogo sicuro. Credo che non si possa morire dentro casa: l’arte ti può salvare perché è un balsamo per l’anima”.
A cosa stai lavorando?
“In questo momento sono ferma. O meglio: lo sono, come molti colleghi, già da marzo. Ho alcuni progetti in cantiere ma sono sospesi”.
Che consigli ti senti di dare a un giovane che vuole fare l’attore?
“Quello di fare una scuola, perché ti fornisce gli strumenti di base per acquisire conoscenze artistiche. E poi di buttarsi nel mondo, visto che non ci sono più compagnie di giro”.
Nel 2001 hai fatto “Carabinieri”. Che esperienza è stata?
“Molto bella perché è stato il mio approccio alla televisione. Un ricordo che conservo con piacere: ho girato due puntate”.
A teatro hai lavorato anche con Marco Bellocchio e Leo De Berardinis. Com’è andare in scena per loro? Cosa ti hanno insegnato?
“Con Marco Bellocchio ho fatto il ‘Macbeth’: in quella produzione c’era Michele Placido. Io facevo una delle streghe. Marco Bellocchio è un regista di cinema e quindi ha avuto un approccio diverso al teatro: ha dato un suo ‘occhio’ cinematografico al testo di Shakespeare. Leo è Leo: un pezzo di storia del teatro di ricerca. Per me è stato un incontro denso e interessante. Leo era una persona particolare che non riesci mai ad acchiappare sino in fondo. Un uomo di grande intelligenza. Quando ti guardava negli occhi, ti guardava e lo sentivi”.
A San Marino c’è un buon movimento artistico ma che non riesce a “uscire” dai confini. Cosa manca sul Titano? Una scuola o i talenti?
“A San Marino ci sono corsi, scuole, persone valide e appassionate. Sarebbe bello riuscire ad ampliare le possibilità. Mi spiego: fondare un’Accademia nella quale coinvolgere le nostre professionalità e quelle ‘estere’ sarebbe sicuramente una fonte creativa e costruttiva. Per crescere serve la ‘contaminazione’, secondo me”.
Alessandro Carli