I due artisti hanno lasciato la loro impronta poetica sul Monte Titano: andiamo a scoprire chi sono e l’importanza delle loro opere d’arte, inserite in un percorso museale “all’aperto” e fruibile da tutti.
Appaiono così, all’improvviso, e sanno catturare l’attenzione e un po’ di tempo. Sedici opere, esposte lungo le strade e le contrade del Centro Storico della Repubblica di San Marino, impreziosiscono Città e accompagnano l’ospite durante la scoperta del Monte Titano, in un connubio tra un’anima medievale e uno slancio verso la modernità. Le opere scultorie disseminate in ogni angolo sono state realizzate con materiali semplici come il bronzo e la pietra e interpretano il tema della pace secondo la visione di rinomati artisti contemporanei.
Da “Neutralità” di Marcel Guguianu (1980) a “La pattinatrice” di Emilio Greco, passando per “Allieva di danza” di Venanzo Crocetti (1957), “Lotta di Vespe” di Bino Bini, “Conversazione” di Luciano Minguzzi, “Cavallo rampante” di Aligi Sassu (forse l’opera scultorea più celebre della Repubblica, è del 1985), “Testimonianza 1” e “Testimonianza 2” di Marina Busignani Reffi, la scelta è davvero ampia. Hanno catturato la nostra curiosità due opere che portano lo stesso nome, “La pace”, realizzate da una da Giorgio Oikonomoy (1983) e l’altra da Antonio Berti (1982).
Due Maestri, diversi e simili, che hanno lasciato la loro impronta sulla Rupe. Se le loro opere parlano da sole, andiamo a scoprire la loro vita e la loro poetica.
Giorgio Oikonomoy
Giorgio Oikonomoy (Atene, 21 gennaio 1947) è uno scultore e pittore greco che vive a Genova. Tra le sue opere più celebri la grande vetrata della chiesa di San Michele Arcangelo, Santa Maria del Carmine e San Giustino martire a Montesignano (Genova Molassana), la grande scultura in grés-maiolicato “Giannina Gaslini un gesto universale” posta all’ingresso del D.E.A. dell’ospedale pediatrico “Giannina Gaslini” di Genova e, naturalmente, il monumento bronzeo “La Pace” (1983), parte del Museo all’Aria Aperta di San Marino.
“Con Oikonomoy – scrive Vittorio Sgarbi – ci troviamo di fronte a un factotum post-rinascimentale che concepisce secondo una sostanziale unità i mestieri di architetto, designer, pittore, scultore, grafico, ceramista, bozzettista di manifesti, francobolli, vetrate e tutto quanto gli si potrebbe chiedere. C’è un senso antico dell’arte in queste capacità poliedriche di Oikonomoy, una disponibilità a considerare ciò che si è in grado di fare non come qualcosa di individuale, ma come risorsa da mettere al servizio degli altri perché risulti di beneficio comune”.
Antonio Berti
Più conosciuta invece è la vita di Antonio Berti (1904-1990) che a soli 17 anni ottenne un posto alla Richard Ginori dove poté dedicarsi al disegno dei prodotti di quella industria di porcellane. Lo scrittore Ugo Ojetti, che aveva avuto occasione di vedere alcuni suoi lavori in creta, consigliò il padre Angiolo di iscriverlo all’Istituto d’Arte Santa Croce di Firenze. Da qui cominciò la carriera artistica del Berti con le prime partecipazioni alla Biennale di Venezia. Si dedicò soprattutto al ritratto scolpendo vari busti. Lo segnalò alla critica il monumento a Ugo Foscolo posto in Santa Croce a Firenze. Seguirono i busti di vari membri della famiglia reale (Vittorio Emanuele III), di Benito Mussolini, della Medaglia d’oro Locatelli, di Paola Ojetti, della miliardaria americana Barbara Hutton e di Susanna Agnelli.
Nel 2014, in occasione del bicentenario dell’Arma dei Carabinieri è stata collocata a Roma, nel giardino di Sant’Andrea al Quirinale appena restaurato, una rifusione del gruppo di Berti intitolato “Pattuglia di Carabinieri nella tormenta” del 1973. Ai Musei Vaticani si conserva invece un “Cristo” di bronzo del 1972.
Nel saggio “Antonio Berti e Rodolfo Siviero: Frammenti e ricordi di un sodalizio” Angela Sanna scrive: “Berti realizzerà un soggetto femminile, ‘La fuga’, destinato alla Repubblica di San Marino, nel quale il sentimento di tensione di una madre che fugge stringendo a sé il proprio figlio richiama, stilisticamente e iconograficamente, la Filosofia. Entrambe le sculture propongono una linea lontana da quella patinata delle opere di Berti degli anni Trenta e Quaranta, caratterizzate da un plasticismo preciso e tornito. Nelle statue predette prende infatti il sopravvento una vena più espressiva che rivela la fase matura dello scultore e la sua meditata interiorizzazione dei grandi maestri. La direzione seguita dall’artista in queste opere sembra anche rivelare una maggiore apertura a quell’istintività cui Siviero accenna nei suoi diari parlando di artisti come Berti, e un minore influsso di quella ‘bella forma’ che, sempre a detta di Siviero, tendeva a inibire la ‘genialità’ del maestro. L’opera dello scultore fu peraltro molto apprezzata dallo stesso Rodolfo, come si evince dal suo commento complessivo alle quattro statue, delle quali esalta l’appartenenza alla ‘tradizione italiana’ e il distacco da quelle ‘sofisticazioni’, specie astratte e informali, che ai suoi occhi tradivano il ‘significato stesso dell’arte che è sempre faticosa conquista di valori universali’. Di qui la sua predilezione per quelle ‘opere che parlano un linguaggio chiaro’ e che, come le sculture dell’ateneo, costituivano il simbolo di una realtà estremamente faticosa perché il vero e il bello si uniscono solo a un livello elevato”.
Alessandro Carli