Nino Lombardi, “L’usignolo di siepe paesana”

La produzione in dialetto del poeta sammarinese (1901-1937) fu breve e intensa come un colpo d’ala. Eppure lasciò liriche straordinarie, amate anche da Aldo Spallicci, “padre” del romagnolo.

Di Alessandro Carli

Alla fine, ha sempre ragione il poeta Raffaello Baldini: “Certe cose succedono solo in dialetto”. E mentre l’Italia è venuta a conoscenza di essere “l’unico Paese al mondo dove è nata prima la cultura e poi la nazione” (bello il discorso pronunciato da Roberto Benigni agli ultimi “David di Donatello” davanti a Presidente della Repubblica Sergio Mattarella), la Repubblica di San Marino già da tempo “osserva” con una certa attenzione le proprie radici. Curiosa e azzeccata, ma non solo, la scelta di Ente Cassa di Faetano di pubblicare entro la fine dell’anno un dizionario dialettale, che si inserisce in un filone vernacolare piuttosto importante e vivo che vede oggi in Checco Guidi e Romeo Morri – seppure nelle loro diversità poetiche – due esponenti di spicco.

Terminata, fortunatamente, la derubricazione a “parlata del popolo” e quindi di serie “b” – forse ci ha messo del suo Pier Paolo Pasolini quando, in “Dialetto e poesia popolare” (1951), scrisse che “Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”. Per l’autore di “Ragazzi di vita” il dialetto era “l’ultima sopravvivenza di ciò che ancora è puro e incontaminato” e quindi andava protetto -, oggi “la lingua locale” è stata rilegittimata e rappresenta (e ce lo insegnano molti studiosi) l’ultimo, vero e terrigno “veicolo identitario”. Se è vero – e ne siamo certi – che “la poesia in dialetto è fenomeno della piccola borghesia” (sempre Pasolini), giova recuperare parte della produzione lirica di un grande penna sammarinese, dimenticato dai più, Nino Lombardi che a cavallo tra gli Anni Venti e Trenta seppe entusiasmare anche Aldo Spallicci, probabilmente il massimo cultore e promotore dell’identità e delle tradizioni popolari della Romagna. “Se c’è da iscriversi all’elenco degli ignoranti e dei poveri, questa è la mia scelta” disse una volta prima di aggiungere: “Ho deciso di cantare nel mio dialetto-madre perché in esso mi trovo più vicino all’anima delle cose, al cuore degli uomini, al mio Dio”.
Anche il “bardo” Francesco Guccini – uno che ha cantato “La fiera di San Lazzaro” in bolognese, che ha tradotto in “pavanese” il teatro di Plauto e che il 13 maggio salirà sul palco Carisport di Cesena – più volte ha affrontato il tema. “E’ importante conservare un dialetto come testimonianza di una piccola popolazione, anche se il dialetto poi è trasversale a tante altre popolazioni di quella stessa zona, che altrimenti sarebbe andato perduto, perché ormai questo dialetto (il suo, ndr) è scomparso quasi totalmente, dato che lo parlano solo gli anziani che, per ragioni anagrafiche, stanno scomparendo”.

L’usignolo di siepe paesana

Bellissima la definizione che ne dà il “Corriere padano” nell’edizione del 28 maggio 1929: “Usignolo di siepe paesana” (il canto dell’usignolo è considerato tra i più belli e i più complessi degli uccelli canori ed è composto di strofe di toni singoli e doppi densamente allineati l’uno all’altro). Troppo pochi sono coloro che conoscono la poesia di Nino Lombardi (1901-1937: quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario della morte), forse perché – ci rivelano i libri custoditi nella Biblioteca di Stato della Repubblica di San Marino – “i volumetti che egli preparava anche tipograficamente erano pochi di numero, e andavano in mano agli amici, i quali gelosamente li conservavano”.
Sappiamo che gli anni che spaziano tra il 1926 e il 1928 furono “d’oro” per la sua produzione: San Marino, le sue feste, il suo panorama, la vita con le sue gioie e le sue delusioni “sbocciano nel canto di Lombardi e trovano mille modi, mille forme, mille suoni che escono e si elevano dalla comune manifestazione degli altri poeti dialettali”. Ma sappiamo anche che esordì nel 1924 quando, con il nome di Italo Lombardi, mise alle stampe una raccolta di sonetti intitolata “Fra il popolo”, impreziosita da una prefazione di Pietro Franciosi in cui le figure vengono tratteggiate e definite (pirandellianamente è la parola che dà vita al personaggio) con alcune espressioni dialettali come ad esempio “boia d’gall”, “dangue de figh”, boia dla melta”, eccetera.
Nella sua prima opera firmata Nino Lombardi, “Tra al genghi e gli arvuri” (1926), il legame con il Titano emerge con luce ancora più cristallina. L’opera difatti si apre con “Patria mia!”: “O bela patria mia, o mi bel mont / s’el tu tre torri so te ciel turchin / e per che t’voia di’ s’un bel raccont / tott e tu gran passed ed gloria pin! / E quand che i furistir i pass e pont / che segna e nostr cunfein e quel de vscin / i sent quel cosa d’nov e cume tont / it fa e salut, magari… s’un inchin!”.
Parole che giungono sino alle orecchie e agli occhi di Aldo Spallicci che, in una missiva del luglio 1927, scrive: “Caro Lombardi, grazie a lei che mi fa respirare un po’ d’aria montanara, in quell’adorabile semplicità che è certo sconosciuta a questi sciagurati che s’accalcano nei centro mostruosi che han nome: città grandi! Rimanga pure sotto le Tre Penne a commiserare le formiche umane, pago del suo bel sole, dell’ombra di una quercia o del sorriso di una ginestra! Lassù, accanto ai martellatori delle rocce, ella potrà plasmare più vigorosamente il sonetto, ella ritroverà la sua anima buona di solitario che, pur sentendo in sé tante anime della sua terra, dovrà sdegnare i sentieri che recano le tracce del passaggio di altri. Ascolti il suo cuore, caro Lombardi, e avrà il migliore dei consigli. I miracoli delle albe e dei tramonti, si ripetono nei millenni, gli occhi dei poeti ne sono stati commossi in tutte le età, non conta: lei si leva con iridi nuove dalla sua rupe e adora come un neofita. Ecco, io attendo da questi suoi primi tocchi che una campana a martello, da sopra alla Rocca, faccia volgere agli occhi in su agli audaci, o una campana a vespro faccia volgere gli occhi in giù ai pellegrini della malinconia e voglio pensare che, chi batte alla gagliarda e chi modula sul bronzo, sia il mio giovane amico di Romagna, anche se quella magnifica rupe si chiami Repubblica di San Marino”.
Ai tratti caricaturali di alcuni personaggi – ricordiamo “Le predica”, “Disoccupato”, “Il cieco” – fanno da contraltare quadretti umoristici (“Il matrimonio”, “La burla”, “Appartamento d’affittare”), moralistici (“Il progresso”, “Modesta preghiera”) e soffiati di spleen. E’ il caso del sonetto “Malinconie”: “E sol l’è già caled, e gio tla stala / us seint i bu chi magna e la cavala. / Dal cisi e sona già l’avemaria / e chi rintocchi m dà malinconia! / Due tre burdlein i curr su ‘na gran bala / chi vò ciapè dli luc-cli e: luc-cla-calà / i grida, i corr, i corr, e pu i va via. / Gran bela età! Na volta l’era la mia”.
Il frutto conclusivo della sua fatica letteraria è “Un quadrett d’ pieda”, pubblicato nel 1928, in cui l’autore “aveva raggiunto una maturità ragguardevole”. Un viaggio che poi si è interrotto pochi anni più tardi ma che non gli hanno impedito di comporre una lirica – come fece tra l’altro anche Antonio Vivaldi ma senza parole – dedicata alla primavera. “Ecco ch’la arriva se cistein pin d’ fior / pina d’udor la bela Primavera / e tott e pèr ch’i goda, fina e cor / e batt t’un mod per fe capì ch’la chera! / Bela stasjion! T’si fiola de Signor / e la più bela, t’si, d’totta la tera; / tè t’si cme una matteina tott spendor / ch’la vein se sol dop una brotta sera! / A vegh per tera stesa una gran cuerta / ch’la è verda verda e un po totta fiurida / e a guerd ‘sta gran belezza a bocc averta! O bela primavera! T’um fe rida / t’um fe cuntent anca se me an n’ o voia / s’t’ un gne foss tè te mond la sarì fnida!”.
Certe cose, posso accadere solamente in dialetto.