Il giudice e lo scrittore: intervista a Giancarlo De Cataldo, l’autore di Romanzo Criminale

Giudice, scrittore, giornalista, sceneggiatore. Giancarlo De Cataldo è tutto questo. E forse anche di più. Il suo Romanzo Criminale del 2002 – ispirato ai fatti della Banda della Magliana – è il best seller che lo ha trasformato da scrittore stimato ad autore di successo, aprendogli le porte del cinema con il film di Michele Placido e la serie prodotta da Sky.  Lui stesso affermerà “Pensavo di aver scritto un grande affresco storico-politico su 15 anni di storia italiana e mi sono ritrovato con le magliette e i gadget con su scritto io sono il Libanese”. I suoi libri raccontano una società in cui è difficile identificare chi detiene veramente il potere e in cui il fascino della vita criminale rivela la tragica realtà di una vita nera che non ha più nulla di normale. La sua presenza al Salotto di Villa Manzoni 2017 promosso dall’Ente Cassa di Faetano è stata l’occasione per approfondirne la duplice anima di uomo della legge e scrittore noir, partendo dai suoi romanzi per arrivare all’inchiesta Mafia Capitale, passando per il Risorgimento, Netflix e quella “crepa” in cui dietro al criminale si scorge l’uomo.

Giudice, scrittore, giornalista, sceneggiatore: quale veste le calza meglio?

Amo tutte queste pelli! Adoro avere la giornata occupata e pensare a come occupare quella successiva. Nel mio ruolo di giudice sono tenuto alla serietà e a mettere da parte personalità e narcisismo, aspetti che invece devono esplodere nell’ambito artistico-artigianale. Quindi sono molto contento quando mi dedicano un articolo su un giornale, quando una mia opera viene pubblicata o messa in scena. Un amico regista una volta mi ha detto che non farebbe mai il giudice, il medico o l’architetto perché sono mestieri in cui se sbagli causi qualcosa di irreparabile! Invece nell’ambito artistico se sbagli al massimo hai scritto un brutto libro o fatto un brutto film.

Il pubblico del Salotto di Villa Manzoni

Quando ha scritto Romanzo Criminale pensava avrebbe avuto tale successo? E che quei personaggi sarebbero diventati un fenomeno sociale?

Sinceramente no. Se avessi anche solo immaginato l’appeal che avrebbe esercitato un personaggio come il Libanese non l’avrei fatto morire a pagina 142! Volevo riportare la scrittura fuori dall’interno cucina borghese a qualcosa di più alto, di più complesso. Ci sono voluti cinque anni per scriverlo ed ero in una fase della vita in cui mi ero detto “lascia o raddoppia”: facevo lo scrittore già tempo, raccogliendo stima ma senza avere un grandissimo successo – sebbene del mio primo libro era stato fatto un film (Nero come il cuore ndr). Romanzo criminale è stata un’esperienza totalmente diversa dai lavori precedenti, che mi ha cambiato la vita proprio perché mi ero detto “In questo libro devi dare tutto”. Ci credevo tantissimo, litigai anche, perchè qualcuno non riteneva che una storia sugli anni settanta potesse interessare. Questo qualcuno disse “facciamolo ma non venderà neanche una copia”. Dopo di me questa persona ha detto la stessa cosa a proposito di Gomorra di Saviano!

Quanto c’è della vera Banda della Magliana nel romanzo?

Io ho conosciuto i membri della Banda in carcere prima ancora di processarli. L’idea del libro era nata in quel periodo. Quando poi sono partiti i processi molti di loro erano morti nelle faide interne tra le due anime del gruppo: quella proletaria fatta di banditi che stavano sulla strada e quella finanziaria che è riuscita a legarsi ai poteri economici, politici, militari e massonici e quindi ha fatto il salto diventando una cosa completamente diversa. Mi sono ispirato ai personaggi reali ma li ho fusi insieme, tirando fuori dei caratteri letterari. In una storia quanto più forti sono i personaggi tanto maggiore è il suo fascino. E il male ne esercita molto. Ho costruito una storia, non intendevo fare il reportage sulla Banda della Magliana.

Romanzo Criminale, illustrazione di Gipi

Ci sono il Libanese, il Freddo, Dandi …

E anche il Nero, che poi è cresciuto e in La notte di Roma e Suburra è diventato il Samurai, guadagnandosi un posto di rilievo. Il punto è che questi personaggi sono tre modi di intendere la condizione giovanile: se dalla storia togliamo gli aspetti criminali abbiamo tre giovani che vogliono prendersi il loro posto nel mondo. Per riuscirci si alleano. Cosa mettono in comune? Il Libanese ci mette l’idea: facciamo un gruppo; il Freddo ci mette un paradossale cemento etico, le regole; Dandi l’elasticità: ok le regole ma solo finché convengono. Quando ho iniziato a scriverlo ero molto dalla parte del Freddo, che ha un suo codice morale e se non avesse fatto il criminale sarebbe stato un grande maggiore dell’esercito, poi mi sono avvicinato al Dandi perché è molto più come tutti noi.

L’hanno accusata di aver trasformato in eroi dei delinquenti.

Succede solo in Italia! C’è un moralismo frainteso. Uno scrittore ha il diritto di raccontare la malvagità nel modo più malvagio possibile, altrimenti sarebbe tutto edulcorato. In queste descrizioni emerge in modo chiaro la tragicità ed il disordine della vita criminale. Essere un criminale significa vivere sempre con la pistola sotto il cuscino, abbandonare lentamente il sogno di una vita normale e cadere in una spirale maledetta, per cui paghi sempre e comunque.

Spesso i film noir ci fanno vedere rappresentanti della legge che per raggiungere i loro obiettivi ne fanno peggio dei criminali. In Romanzo Criminale il Pubblico Ministero e il Commissario sembrano svantaggiati proprio perché bloccati dai vincoli della legge. Lei è mai stato tentato di passare “al lato oscuro”?

Si tratta di un topos letterario che vede la sua genesi intorno agli anni ‘30 con la grande crisi di Wall Street. Nella realtà quando qualcuno agisce fuori dalle regole bisogna punirlo perché l’essenza della democrazia sta nella difesa delle garanzie di tutti. Lo sbirro manesco va bene in un romanzo ma nella realtà non deve esistere. Io poi non sono mai stato pubblico ministero quindi non ho mai dovuto fare indagini. Essendo giudice il mio ruolo è valutare le prove, un ruolo terzo rispetto ad accusa e difesa. Loro devono vincere il processo, io devo accertare la verità. O almeno la verità che si può accertare nell’ambito di un processo, che non sempre poi coincide con la verità storica. Diverso è per lo scrittore che deve di volta in volta entrare nella testa di un personaggio.

“Il potere non riposa sulla canna del fucile ma sul possesso delle informazioni”.

E’ così e vale in ogni ambito: economico, finanziario, criminale, politico. Nella democrazia. Sapere è potere. Questa frase viene pronunciata dal Grande Vecchio in Romanzo Criminale, un personaggio che rappresenta un modo di intendere il compito dei servizi segreti, di cui si son trovate tracce già nell’antica Grecia. Le spie esistono per sapere cosa fanno gli altri ed evitare che gli altri sappiano cosa facciamo noi. Pensate quanta importanza hanno le “informazioni” oggi che siamo dominati dal capitalismo finanziario che decide le sorti di interi paesi. Si rasenta il metafisico ma è tutto terribilmente concreto.

Un momento dell’intervista condotta dalla giornalista Angela Venturini

Nel libro La Notte di Roma (2015) lei precede l’inchiesta Mafia Capitale e descrive la corruzione che permea i livelli più alti dello Stato e non solo. Questa visione profetica è frutto del genio letterario, della conoscenza dei fatti o cos’altro?

Non ho avuto informazioni segrete, se è questo che intende! Se le avessimo avute io e Carlo Bonini avremmo descritto anche questo filone investigativo sul rapporto tra criminalità e settore del sociale, settore che noi invece abbiamo tenuto fuori perché convinti che lì ci fossero solo brave persone. Quando l’abbiamo letto nell’inchiesta siamo caduti dalle nuvole. Nel libro precedente, Suburra (2013), dipingevamo una destra criminale e un sinistra distratta: non avevamo capito che anche una parte della sinistra era tanto criminale quanto la destra.

La politica non è più un riferimento, la giustizia fa quello che può: come si può scardinare questa congiunzione tra malavita e malapolitica?

Intanto che si sia realizzata un’inchiesta come Mafia Capitale dimostra che queste persone non hanno massima libertà di azione. C’è una forza che li contrasta. Occorre anche dire però che la politica non è tutta marcia: certamente ce n’è una componente degenerata che va fermata. Ma attenzione a non finire nel populismo, quel magma per cui “tutto fa schifo tranne me”. Le strade su cui lavorare sono due: la prima è l’istruzione, l’educazione, il tempo che passiamo coi nostri figli; la seconda è la cultura perché più sai e più sai difenderti da chi ti vende merce avariata. C’è anche da dire che il malaffare approfitta di un sistema che è fatto da una miriade di norme a volte in conflitto tra loro: una maggiore semplificazione aiuterebbe molto ad ostacolare certi fenomeni.

Giudice e scrittore sono due mestieri totalizzanti: come concilia le due cose?

Benissimo, non esistono mestieri totalizzanti! E soprattutto penso che se uno ha un talento sia un delitto nasconderlo. Per fortuna non esiste un concorso pubblico per diventare scrittore, esiste solo il giudizio del pubblico. Il concorso esiste per fare il giudice, professione che svolgo da 30 anni.

Come il successo ha cambiato la sua vita? Ha creato problemi con i suoi colleghi?

Successo significa che quando tu telefoni a un dirigente RAI quello ti risponde. Anzi, è lui che ti cerca! In generale siamo in un momento in cui chiunque alzi la testa viene attaccato, quella dell’hater è diventata una professione.

Il ruolo di giudice l’ha avvantaggiata nel mestiere di scrittore?

Fino a un certo punto essere poteva essere un vantaggio, da una ventina d’anni non più perché chiunque può accedere alle informazioni a cui posso accedere io. Infatti il livello tecnico del racconto poliziesco negli ultimi anni si è alzato tantissimo. E questa cosa ha comportato anche un innalzamento del livello tecnico dei criminali! James Patterson – importante scrittore americano – fa dire ad uno dei suoi personaggi : << Con CSI abbiamo allevato una generazione di criminali bravissimi sulla prova scientifica>>.

La firma dei libri

Come si fa raccontare il male mantenendo uno sguardo umano, evitando la tentazione di giudicare?

Forse perché tutte le mie risorse di giudice sono impegnate in tribunale quindi nella scrittura posso essere molto libero. E’ difficile trovare una persona che non abbia un lato che non si possa comprendere. Infatti tendo a evitare aggettivi come “folle”: i gesti folli appartengono soltanto ai folli che sono una minima parte dei criminali; gli altri hanno tutti una logica, per quanto distorta, inaccettabile, e da combattere. Una volta che tu capisci quella logica cerchi di capire in quale momento dell’esistenza sia scattato quel “click” che ha portato un bambino nato in una famiglia normale a diventare un criminale; o il perchè un bambino nato in una situazione di degrado o in un contesto criminale non ha avuto la forza di diventare qualcosa di diverso. A me interessa quel momento, quella crepa. Se tu la intercetti non stai più raccontando un mostro meccanico, ma stai raccontando un essere umano.

Il fatto che TV e giornali rincorrano il fatto criminoso aumenta l’emulazione o ha un effetto deterrente? Sembra che i crimini aumentino di giorno in giorno…

Le cause non sono mai addebitabili a chi racconta. La cronaca nera esercita certamente una forte attrattiva sull’essere umano. Pensiamo che il romanzo giallo nasce con il Fuilleton, il supplemento domenicale dei giornali francesi e inglesi tra 1.700 e 1.800,  in coincidenza con la prima rivoluzione industriale e con queste masse di persone che dalla campagna arrivano in città per diventare manodopera. Vivendo in condizioni miserabili il crimine diventa una delle possibili strade per sopravvivere. In quei tempi nasce la polizia e nascono i romanzi a tema criminale. Vedi Edgar Allan Poe con Murder in the Rue Morgue. Ma anche chi andava a vedere le opere di Sofocle o Eschilo era attratto dalle tragedie di Edipo e Oreste, perché il male è una componente di ognuno di noi e la sfida è riuscire dominarlo. Quando lo vediamo sconfitto negli altri ci sentiamo liberarti. Si chiama catarsi.

Si è sempre detto che un giudice parla attraverso le sentenze. È vero?

E’ un’ipocrisia che si è sgretolata negli anni 60 quando i giudici hanno iniziato a rivendicare il diritto di critica alle sentenze, per il semplice fatto che esse sono sorrette da motivazioni. Ora siamo in una fase regressiva. Io quando sono diventato giudice non ho firmato un patto di deminutio capitis, rinunciando ai miei diritti di elettorato, di critica, di espressione che sono garantiti dalla Costituzione Italiana. Se qualcuno me li vuole amputare io devo combattere per la mia libertà: oggi è per la mia, magari la prossima volta è per quella di un architetto, di un meccanico o un medico.

Lei ha scritto diversi libri insieme ad altri autori, come Camilleri, Lucarelli, Carofiglio, Bonini e altri. Come nasce questa voglia di collaborazione?

L’esempio viene dalla Scuola di Bologna con Lucarelli, Rigosi, Macchiavelli e altri che si incontrano e – usando un termine economico – “fanno sistema”. Ci siamo trovati su affinità tematiche e personali – siamo amici – condividendo degli argomenti, l’amore per la scrittura e soprattutto il piacere di leggerci, cosa non frequente in altri gruppi di scrittura. Il successo di uno è festeggiato da tutti perché rappresenta un altro mattoncino messo nella costruzione di una scuola, di una corrente, quella del noir italiano. Una realtà mondiale che abbiamo costruito insieme. In alcuni libri ognuno ha scritto il suo racconto, come in Giudici con Lucarelli e Camilleri oppure Cocaina con Carlotto e Carofiglio. Altri libri, come Suburra e a La Notte di Roma invece li abbiamo scritti proprio a quattro mani io e Carlo Bonini, un’esperienza che ha un’unica condizione: fare a pezzi il proprio ego per lasciare posto a un ego collettivo in vista del risultato finale. Un processo tipico della sceneggiatura o della regia.

E il Risorgimento?

Nel 2003 il regista Mario Martone mi coinvolse in un film che voleva fare sul Risorgimento. Ci abbiamo lavorato 7 anni e poi è uscito Noi credevamo. Dopodichè ho scritto il libro I traditori, poi un libretto con le biografie di Mazzini, Orsini e Pisacane. Il Risorgimento è divenuto una passione divorante! Penso si tratti di un passaggi storico di cui ancora non abbiamo capito la natura profonda.

Come ha imparato il romanesco?

Parte della mia famiglia già viveva a Roma, poi ho studiato e ascoltato. E soprattutto c’era Bruno questo macellaio testaccino che frequento da quando ero studente. Lui mi ha dato le lezioni vere di romanità ed anche un quadernetto di soprannomi veri che ho usato nell’elenco dei personaggi che partecipano al funerale del Dandi, come il Kilowattaro – un ladro che correva velocissimo, o Spadino – dal nome dell’attrezzo che si usa per scassinare le macchine – e così via.

A cosa sta lavorando ora?

Sto lavorando ad un nuovo romanzo su cui non posso dire nulla se non che ha a che vedere con il “caos”. Posso dire invece che Suburra diventerà una serie su Netflix, che partirà in contemporanea in 189 paesi del mondo, una cosa emozionante! Potremo avere grandi riconoscimenti o imprecazioni in 189 lingue diverse!

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