Ognuno di noi è un buona notizia. Intervista a Guido Marangoni

Non è mai un caso quando un libro arriva in finale al Premio Bancarella, uno dei più prestigiosi riconoscimenti letterari del panorama italiano. E non è mai un caso quando la storia di una famiglia fa il giro dello stivale collezionando oltre 150 presentazioni. Vendendo tantissime copie. Questa bellissima sorpresa ha un nome: Anna ha quattro anni, vive in provincia di Padova, va a scuola, a danza, a nuoto. Ed è affetta da Trisomia 21, la Sindrome di Down. Anche se a ben vedere la sua vera specialità è quella di essere una campionessa di incontro. Anna che sorride alla pioggia (Sperling & Kupfer 2017) il racconto di un padre, Guido, che attraverso la storia della vita con la piccola Anna commuove e fa sorridere. E soprattutto ci suggerisce di guardare le cose e chi ci sta accanto da un’altra prospettiva… La partecipazione di Guido Marangoni al Salotto di Villa Manzoni 2018, promosso dall’Ente Cassa di Faetano, è stata l’occasione per approfondire la sua storia.

Partiamo da titolo del tuo libro, Anna che sorride alla pioggia. Guido vuoi dirci subito chi è Anna?
Anna è la mia terza figlia. Terza figlia nel senso che ho tutte donne a casa. Ho fatto di tutto per fare il maschio, tant’è che quando abbiamo scoperto che mia moglie Daniela era incinta ero talmente sicuro che sarebbe stato un maschio che ho attaccato un canestro sopra al garage! Poi devo aver fatto confusione con i cromosomi ed Anna è arrivata con quel famoso cromosoma in più che tanto spaventa e tanto destabilizza le nostre normo-certezze. Oggi è una bimba di 4 anni e come tutte le bimbe di quell’età è un vulcano! Va alla scuola materna, fa ginnastica artistica, nuoto, fa un sacco di cose e ha questa disabilità “esplicita”.

Cosa intendi con disabilità esplicita? Esplicita rispetto a cosa?
Rispetto alle disabilità nascoste. La disabilità esplicita è quella che possiamo vedere. Gli occhi a mandorla di Anna ci parlano della Sindrome di Down. Se ci fosse una persona in carrozzella si parlerebbe di un’altra disabilità. Però io credo che ci sia anche tutta una parte di disabilità che ci riguardano tutti, ma veramente tutti. Proprio perché non sono evidenti ci hanno sempre abituati a tenerle ben nascoste. Io invece ritengo che – a prescindere dalla disabilità di Anna – l’incontro più potente che possiamo avere tra di noi avviene nella nostra parte più fragile. Se dà fastidio chiamarla disabile, chiamiamola fragile.

Perchè scrivere la vostra storia in un libro? Che obiettivo ti eri dato?
Quando ho iniziato a scrivere il libro una delle mie più grandi paure era che fosse preso come un manuale sulla disabilità, oppure come la caricatura del “papà con la sua figlia disabile, poverina”. Invece, non vuole essere nulla di tutto questo.
Raccontare la nostra storia – che non ha nulla di eccezionale rispetto a tante altre – nasce dal desiderio di raccontare le nostre fragilità: la Sindrome di Down di Anna è un pretesto per parlare di diversità, di disabilità e di fragilità che ci riguardano tutti. Il mio desiderio che è quello di raccontare appunto sia le cose belle che le cose brutte, insomma, la vita. È quello di incontrarci anche nella nostra parte più fragile

Colpisce perché è un libro che non nasconde niente, un pò si ride, un po’ si piange…
L’idea era questa (ride). Ho voluto scriverlo raccontando quello che ci è successo nella vita, dove ci sono momenti molto belli e altri più difficili. Però sempre dal punto di vista della leggerezza.

Leggerezza cosa significa per te?
E’ un termine bellissimo, spiegato molto bene da Italo Calvino: “Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. A me piace tantissimo questa frase perché tutti noi abbiamo dei macigni sul cuore. A volte talmente grossi che proprio non riusciamo a toglierli. Io credo che una delle poche possibilità che abbiamo è di raccontarlo e condividerlo questo macigno. La leggerezza magari non risolve le cose ma suggerisce un punto di vista che può donare delle energie completamente diverse e farci incontrare persone che magari non avremmo mai incontrato, ci apre.

In un passaggio scrivi che la Sindrome di Down è un po’ la Rolls-Royce delle disabilità. C’è una maniera differente di affrontare la diversità a seconda della gravità della patologia?
Credo ci siano milioni di modi. Quello che scrivo nel libro non è il modo giusto ma semplicemente la nostra esperienza. Ognuno ha la sua modalità, le sue risorse, il suo momento storico, la sua vita.
Per quanto riguarda la Rolls-Royce delle disabilità, è una frase che ho preso in prestito da Martina Fuga, autrice del libro Lo zaino di Emma. Certamente tra le disabilità – almeno tra quelle che è possibile riconoscere già in gravidanza – la Sindrome di Down è quella che dal punto di vista dell’impatto sociale risulta più “accettabile”, perché una persona con sindrome di Down può avere una vita assolutamente dignitosa. Però di fronte ad una notizia destabilizzante come nel caso di una disabilità – è un po’ brutto – ma per forza di cose si fa quasi una classifica, come per dire: “Beh, dai, se mi fosse capitata quell’altra cosa …”. E’ un modo per cercare di tirarsi su…

Si cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno…
Esatto. Si cercano delle strategie per affrontare la cosa.

C’è differenza tra il caso di una patologia genetica, in cui sai già all’inizio che nascerà un figlio in questa maniera, e invece una patologia che subentra dopo, per qualsiasi motivo?
Il fatto di “saperlo prima o scoprirlo dopo” è una cosa che mi ha fatto riflettere molto. Dal mio punto di vista non c’è nessuna differenza. O meglio, se vogliamo ampliarla, anche tutti noi quando diventeremo anziani probabilmente avremo bisogno di assistenza. Credo che questo spostare nel tempo anche il sapere o lo scoprire una qualche fragilità-disabilità faccia parte della natura umana.

Cosa speri per Anna?
E’ una domanda che mi fanno spesso. Niente di diverso da quello che immagino per Marta e Francesca, le altre mie due figlie: che siano attorniate da persone che vogliono loro bene, che facciano fare loro le cose che amano fare e non quelle che non vogliono fare.

Ma ci sarà un desiderio in particolare che ti sorge proprio davanti a lei!
Desidero che le persone che Anna incontrerà non la confondano con la sua disabilità, con la sua condizione genetica. Perché se c’è una cosa che lei a modo suo mi dice ogni giorno è: “Papà, guarda che io sono Anna, non sono la mia Sindrome di Down”. Questa cosa, che potrebbe sembrare banale ma non lo è, è il cuore di tutto quello che racconto.

Tu e Daniela avevate avuto già l’esperienza di una gravidanza con un bambino…
Sottolineo bambina… io faccio solo donne (ride, ndr).

Insomma avevate già attraversato una gravidanza dolorosa, che si è conclusa prematuramente a causa del sopraggiungere di grave handicap. Quando arriva questa nuova gravidanza tu dici: “Ho già dato”. Poi arriva la dottoressa e dice: “Trisomia 21”. Rimani un po’ male…
Torniamo un attimo indietro. Prima di Anna ci sono state alcune gravidanze andate male. Una in particolare era Sofia, alla quale era stata diagnosticata la Sindrome di Turner. Ci eravamo già messi nell’ottica di affrontare questa prova quando è sopraggiunta una grave complicazione e i medici ci hanno messo davanti alla scelta di tenerla o meno, esplicitandoci però che avrebbe potuto nascere con dei problemi che si potevano affrontare. Quindi abbiamo deciso di tenere aperta questa porta, che valeva la pena intraprendere questo calvario. Ad un certo punto al settimo mese, il battito non c’era più. Quindi Daniela ha dovuto partorire Sofia e lì, per la prima volta, ho realizzato che il parto non è sempre legato a gioia e vita. E quindi anche questo parlare di morte – che fa parte della vita – ha molto cambiato il mio punto di vista.

Non vi è mai venuto in mente l’aborto?
La domanda è assolutamente lecita. L’annuncio della Sindrome di Anna in effetti è stato un déjà-vu. Stesso ospedale, stesso medico, stesso annuncio freddo. Magari dico una cosa esagerata ma l’annuncio della Trisomia 21 non dico che è stato un sollievo, però… a proposito della Rolls-Royce … Le dico la verità: non abbiamo mai pensato di interrompere con Anna. Però il momento in cui ci hanno dato questo annuncio è stato un momento in cui Daniela mi ha fatto uno dei più grandi doni che poteva farmi ….

Quale?
Quando la dottoressa ha annunciato “Trisomia 21” io ho preso una paura pazzesca. Daniela, forse perché donna – e le donne hanno questo canale preferenziale con la vita – ha chiesto: “Ma è maschio o è femmina?”. Tant’è che la dottoressa ha fatto una faccia come per dire “questa qua è esaurita” e ha detto: “Signora lei non ha ben capito, la Trisomia 21 è la Sindrome di Down”. E mia moglie: “Dottoressa, ho capito benissimo. Voglio solo sapere se è maschio o è femmina”.

Daniela stava già guardando oltre…
Esatto. Mentre io mi stavo occupando di cosa stava succedendo Daniela con quella domanda si stava occupando di chi sarebbe arrivato. Ecco, questa intuizione di svincolare la persona dalle sue caratteristiche – per quanto la Sindrome di Down sia una caratteristica invadente, faticosa, dolorosa – è stata una cosa bellissima. Se ci pensiamo quel “Papà guarda che io sono Anna, non sono la mia Sindrome di Down” è quello che diciamo tutti noi ogni giorno a alle persone che incontriamo. A modo nostro diciamo: “Guarda che io non sono i miei occhi azzurri, non sono il mio lavoro, non sono il libro che ho scritto, non sono i miei soldi, non sono il mio ruolo sociale. Sono Guido. Incontriamoci”. Questa cosa a mio parere è proprio connaturata nell’umanità di ognuno di noi. Sembra la frase più banale del mondo ma ognuno di noi è una persona.

Immagino che l’ironia con cui descrivi la vita con Anna abbia anche fatto storcere il naso a qualcuno. Comunque parliamo di disabilità … è una cosa seria…
Una volta un giornalista mi ha detto “Guardi, secondo me lei non si rende conto di avere una figlia disabile. Se posso permettermi: lei si è innamorato della sindrome di Down”. Io ho detto: “No, guardi! A me non piace per niente, anzi la Sindrome di Down è una brutta notizia”. Lui si è scandalizzato nel sentirmi dire così e io ho continuato “Ma scusi, devo dirlo io che la Sindrome di Down è una brutta notizia? Lei chieda a qualsiasi genitore se al momento di quella scoperta – che sia in gravidanza o appena il bambino è nato – hanno fatto i salti di gioia. E’ una brutta notizia! Ma per cortesia, non scriva “Guido Marangoni ha detto la Sindrome di Down è una brutta notizia, punto”. Casomai scriva che Marangoni ha detto: “La Sindrome di Down è una brutta notizia, virgola, ma chi si nasconde dietro la Sindrome di Down quella è sempre, sempre, sempre, una bella notizia!”.

Parliamo della relazione con gli altri. Come ci si deve rapportare con un bambino disabile? C’è chi dice che bisogna trattarli come bambini normali, ma loro hanno delle specificità. Qual è l’approccio migliore per rispettare e amare una persona con disabilità?
Intanto credo che la parola normale svuotata dalla persona è la parola più inutile e vuota che esista. Certo è che una disabilità esplicita fa paura. Più che altro la non abitudine, la “non confidenza” con questo fatto ci spaventa e ci mette in imbarazzo. Anna tra le sue specialità è una generatrice di imbarazzo!

Facci un esempio!
Una cosa che si nota subito, e i genitori di figli con disabilità lo sanno bene, sono gli sguardi delle altre persone. E badate bene che non sono sguardi extraterrestri, sono gli sguardi nostri, anche i miei. Una volta passeggiavamo in centro io, Anna e mia moglie, e ci viene incontro una signora. Mi guarda, guarda Anna e fa una faccia terrorizzata, non sapeva dove guardare e piuttosto che rimanere in quella situazione cosa fa? Butta i suoi occhi sulla vetrina della ferramenta lì vicino. Era interessatissima ai trapani e alle viti (ride, ndr)! Allora, senza giudicare quella signora, perché è un atteggiamento che abbiamo tutti, io ho osservato e riflettuto molto su questa zona di imbarazzo. Come mai proviamo imbarazzo? E come mai vogliamo scappare?

A quale risposta sei giunto?
La risposta me l’ha data un bimbo di tre-quattro anni. Stavamo facendo sempre una passeggiata e ci viene incontro una mamma con alla mano questo bimbo. Il bimbo guarda Anna, spalanca gli occhi, indica e dice: “Mamma, ma perché quella bambina ha gli occhi così?”. Voi potete immaginare sua mamma … il terrore! Non sapeva cosa dire o fare e ha esclamato “Non si dicono queste cose, andiamo via!”. E sono andati via. Allora non accuso assolutamente la mamma. Probabilmente lo avremmo fatto un po’ tutti. Però lì ho detto: “Allora ce lo insegnano a scappare. Ce lo insegniamo a scappare”. Quel bimbo probabilmente in un’altra situazione di confronto con una qualche diversità – il colore della pelle, il credo religioso, la nazionalità ecc – non avrebbe più avuto il coraggio di chiedere alla mamma spiegazioni. Anzi, provando quella sensazione la mamma aveva suggerito di scappare…

La domanda di quel bambino, dal suo punti di vista, non aveva nulla di strano o di sbagliato mi pare.
Esatto! Era assolutamente lecita. Gli occhi di Anna sono diversi. E’ un fatto!

Però rimanere in quell’imbarazzo” è difficile…
Perché non siamo abituati e si prova del malessere. Io invece vi invito a provare a rimanere anche per un’istante in quella zona di imbarazzo. Perché? Perché in quel momento siamo fragili, non ci sentiamo super, non sappiamo cosa fare e se ci pensate bene gli incontri più importanti che abbiamo fatto nella nostra vita li abbiamo fatti condividendo la nostra parte più fragile. Ecco quindi che quell’imbarazzo ci sta annunciando semplicemente una cosa: un incontro!

Ezio Bosso, quel  bravissimo musicista che ha una disabilità “esplicita” ha detto che se ognuno di noi si rendesse conto dei piccoli aiuti di cui ha bisogno ogni giorno per vivere la propria vita, magari non ci scandalizzeremmo se questi aiuti nei confronti di altre persone sono più evidenti.
Si parla tanto di interventi speciali. Anche quest’altra parola, come la parola normale, svuotata dalla persona non significa nulla. Anzi molte volte ci concentriamo forse troppo sui bisogni speciali delle persone con disabilità e dimentichiamo i bisogni normali: amore, amicizia, scuola, lavoro. Dobbiamo fare questo allenamento dell’incontro, del riconoscere che dietro a questa disabilità che ci spaventa c’è una persona.

Se ne parla tanto ma che cosa vuol dire per te inclusione?
La parola inclusione è sicuramente abusata però è importantissima! Qualcuno in un’occasione pubblica disse che inclusione è una parola che non dovrebbe avere quasi senso se le cose andassero in un certo modo… invece ha molto senso. Noi spesso vediamo l’inclusione come un obiettivo, e spesso lo idealizziamo anche, e quindi siamo molto frustrati perché è difficile arrivare ad una soluzione perfetta. Anche proprio per la natura umana. Io credo che se invece la considerassimo un percorso, un sentiero che decidiamo di percorrere tutti insieme, ecco che allora i piccoli gesti di ognuno – anche sorridere davanti una persona disabile – acquisiscono un’importanza gigantesca.

Per tornare agli “sguardi” di cui parlavamo prima…
Certo! Possiamo attrezzarci tutti per creare la confidenza. Vorrei fermarmi su questa parola, perché è bellissima. Confidenza vuol dire con fiducia. Se ci pensate bene non esiste una scuola della confidenza. La si decide in due, io e te decidiamo: io mi fido di te e te di me. Nasce così. Ma nasce se decidiamo di non scappare da quella zona di imbarazzo di cui abbiamo parlato. Allora a proposito dell’inclusione è importante ricordarci che siamo tutti delle persone: sembra quasi superfluo però io dico sempre che è un po’ come dirci “ti amo”, “ti voglio bene”. E’ sempre la solita cosa ma quanto bello è sentirselo dire? Quanto è umano e liberante!

Quindi sembrerebbe una questione più “educativa”.
Esatto. Io credo che questi concetti non dobbiamo avere paura di raccontarceli, magari anche riformularli e raccontarli da altri punti di vista ai nostri figli. E’ cosi che l’inclusione diventa qualcosa di reale che ci riguarda tutti.

Perché la disabilità ha sempre fatto paura storicamente, quindi c’è questo retaggio antico ancora oggi e c’è bisogno di un percorso culturale credo molto profondo, ma anche una maturazione sociale molto vasta.
Sì, tra l’altro una delle cose più brutte che un genitore o una persona con disabilità possa sentirsi addosso è il pietismo, ovvero non sentirsi sullo stesso piano. Siamo tutte persone sullo stesso livello! Imparare a stare difronte alla disabilità ci fa stare meglio tutti, non perché siamo buoni e allora aiutiamo il povero disabile, ma proprio nell’ottica di incontrarci. Oserei dire che è quasi un fatto egoistico: per stare meglio, non per sentirsi più buoni perché siamo più fortunati.

Le vicende di Anna hanno trovato spazio in una pagina Facebook che oggi conta oltre 50.000 follower!
Siccome la vita concreta di tutti i giorni stanca – e i genitori lo sanno bene! – col passare del tempo abbiamo sempre meno energie e sempre meno voglia di raccontare agli altri non solo le cose negative – che quelle ci vengono abbastanza spontanee – ma anche quelle belle. Noi abbiamo aperto questa pagina Facebook, da dove poi è nato il libro, che si chiama Buone notizie secondo Anna, proprio con questa intenzione: raccontare. Raccontare tutto, senza negare nulla della fatica ma neanche della bellezza, cercando il modo per farle provare anche a chi non ha nulla a che fare con la disabilità esplicita. E’ l’incontro. Non c’è altro.

Verrebbe quasi da definirla Anna dei miracoli! Primo, perché ha trasformato suo babbo in una celebrità –  hai fatto tantissime presentazioni – e secondo perché è diventata una diva del web. Ma non è un po’ troppo esporre così tanto una bimba di quattro anni?
E’ una cosa a cui io e mia moglie pensiamo ogni giorno. Io sono uno che non si tira indietro davanti al parlare, al mostrare, all’esibire. È venuta a me quest’idea di aprire la pagina Facebook, per raccontare e sottolineare anche le buone notizie, non solo quelle brutte. Daniela invece è l’opposto… C’eravamo dati un tempo per capire se valesse la pena portarla avanti perché comunque è un’esposizione che costa, anche dal punto di vista emotivo. Considerate che l’immagine di Anna è stata utilizzata anche per offese pesanti su certi siti… Per ora chiaramente ad Anna di queste cose non gliene frega assolutamente nulla ma non vedo l’ora che dica la sua. Magari mi dirà: “Papà io non volevo fare niente di tutto questo”. Allora chiuderemo tutto e ci inventeremo altro, sempre con l’unico scopo di incontrarci.

Colpisce però come con questa pagina siete riusciti ad aiutare tanti genitori. Si leggono cose commoventi.
La pagina Facebook, il libro, quello che vi sto raccontando è come la punta di un iceberg. Sotto, come dicevi, c’è un flusso di messaggi e di incontri che attraversa tutta l’Italia! Tante persone condividono con noi un momento difficile, un momento bello. Non solo, ci sono anche genitori che sono in attesa di un bimbo con sindrome di Down e sono spaesatissimi, gli crolla il mondo addosso perché – come la maggior parte di noi – quell’annuncio li getta in un mondo sconosciuto. Allora si googla, sapete che Google è molto tecnico nelle risposte. Vi dà tutte le informazioni che esistono ma poche storie di persone e proprio questa è stata la leva che mi ha spinto a occupare una parte del web con le buone notizie che ci porta Anna.

Cosa trovano e cosa cercano in Anna e nella vostra famiglia queste persone?
Alcuni ci dicono che nel sorriso di Anna trovano come un lumino in mezzo all’oscurità, altri ci domandano “cosa dobbiamo fare?”. Noi diciamo: “Non lo sappiamo”. In un momento storico dove si hanno gli strumenti per scegliere – non entro nel merito della questione – io e Daniela abbiamo imparato che difronte a queste situazioni occorre sospendere il giudizio. Ogni storia è un mondo di ricchezza ma anche di dolore, di incontri, di persone. L’unica cosa che diciamo è: “Se volete ci incontriamo. Se volete vi diamo Anna in braccio. Però sappiate che se prendete Anna in braccio siete fregati dopo…”. Ma magari anche questa potrebbe diventare un po’ una violenza…
Però Anna è davvero una campionessa di incontro, che ci ha permesso di conoscere tantissime persone e tantissime storie non solo nell’ambito di una qualche malattia o disabilità, ma anche di momenti della vita dove ci si sente particolarmente fragili magari per una situazione lavorativa o altro qualsiasi altra prova la vita ci metta davanti. E di questo le siamo veramente grati!

Guarda il video report della serata a Villa Manzoni

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L’intervista è tratta dall’intervento di Guido Mrangoni al Salotto di Villa Manzoni (San Marino, 7 giugno 2018)  promosso dall’Ente Cassa di Faetano, coordinato e condotto dalla giornalista Angela Venturini.