Checco Guidi, il viandante della poesia sammarinese

Sei di San Marino se… conosci il “Bustrengo”.

Sei di San Marino se… sai dove si trova la curva di Bustrac.

Sei di San Marino se… Piazza della Libertà la chiami “il Pianello”.

Sei di San Marino se… leggi questo frammento dialettale – “In fin di cunt a sém tot pelegroin, viandint pin d’entusiasmi ch’i circa la su strèda” – e sai con precisione chi è l’autore.

Francesco Guidi, “Checco”, è il Dante Alighieri di San Marino: scrive, cammina, parla e sorride in sammarinese. Nei giorni scorsi è uscita la sua ultima fatica lirica, “Viandint”, che contiene anche un CD audio e che si rivolge al sociale: i ricavati delle vendite verranno devoluti all’Associazione malati di Parkinson di San Marino. Il volume – che si può trovare nelle edicole e nelle librerie del Monte Titano – contiene 80 nuove poesie scritte, molte delle quali sono anche “dette”: nel supporto audio, registrato dallo stesso “Checco” con la collaborazione tecnica di Pino Cesetti di Radio San Marino, si può ascoltare la sua voce che legge. O meglio, interpreta e quindi dà vita ai componimenti. La tentazione è quella di partire dal titolo del volume e parlare di camminatori, di persone che scelgono la lentezza dei piedi alla velocità dei motori. Ma c’è sempre qualcosa che anticipa ogni partenza: la preparazione.

 Certe cose si possono dire solamente in dialetto?

“Sì, è proprio vero, certe cose si possono dire solo in dialetto. Era soprattutto il grande Raffaello Baldini di Santarcangelo che affermava questa verità. Certo, volendo si può dire tutto anche in italiano ma non avrà mai lo stesso impatto genuino. Provate a tradurre la frase ‘Stamatoina la mi moi la è stè so d’arbof’, oppure ‘Te e’ garboin?’ o ancora ‘Te vòja at zoca zàla?’ e tante altre espressioni colorite e immediate”.

 

 

Sembra quasi anacronistico pensare e parlare di pellegrini, di viaggiatori a piedi quando il mondo corre sempre velocemente e in maniera scomposta. Eppure i “viandanti” esistono, eccome. Come li racconti in questo nuovo libro?

 “Sì, in questo mondo sempre più tecnologico e sempre più agitato e nevrotico, in cui la cosa più importante è essere ‘connessi’ al cellulare, al computer, a tutto ciò in generale che sembra non voglia far pensare… moltissimi giovani soprattutto stanno riscoprendo la bellezza del cammino, dei sentieri, del contatto con il silenzio e la natura. Se pensiamo soltanto al fatto che ogni anno più di centomila giovani si avvicinano al ‘Cammino di Santiago de Compostela’ facendolo magari in parte perché non hanno 35, 40 giorni a disposizione per compierlo per intero, (e accenno solo a Santiago perché è il più conosciuto al mondo, ma ci sono altre decine di ‘Cammini’ cristiani o meno che vedono la partecipazione di tanti ‘Viandanti’, vuol dire che è forte nelle persone l’esigenza di ‘staccare la spina’ e tornare almeno per qualche periodo alla vita semplice e vera. Certo, per tornare al mio libro, il titolo che ho scelto è anche un titolo ‘simbolico’ perché penso che tutti siamo dei viandanti su questa terra, tutti che lo vogliamo o no siamo in cammino verso una meta, come dico nella poesia che dà il titolo alla raccolta”.

 Il titolo del volume è di estrema attualità: migranti, viandanti, pellegrini.

“Nella poesia che dà il titolo alla raccolta – impreziosita dalla prefazione di Piero Meldini, illustre studioso, Direttore della Biblioteca Gambalunga di Rimini – ho scritto: ‘In fin di cunt a sém tot pelegroin, viandint pin d’entusiasmi ch’i circa la su strèda… chi s-chélz, chi s’i sàndli, chi sli schérpi at pèla, u s va vèrs una méta’. Quindi i ‘viandanti’ di oggi siamo tutti noi in cammino verso un traguardo che oggi purtroppo ci sembra sempre più incerto e lontano. A volte sembriamo più ‘vagabondi’ piuttosto che ‘viandanti’ e la differenza è grande: il vagabondo cammina senza una meta precisa e si perde spesso lungo tanti sentieri, il viandante o pellegrino affronta una strada ben sapendo dove quella strada lo porterà”.

Ottanta poesie, ottanta pennellate di parole. Che quadro esce?

“Non sta a me certamente dare delle sentenze o mettermi a giudicare il modo di vivere delle persone… ci sono richiami alla memoria, alla vita semplice del passato, alla poca attenzione che abbiamo nei confronti di chi è più sfortunato di noi, alle esagerazioni quotidiane, al vuoto che provano molti giovani pur possedendo di tutto e di più, ma anche a cose allegre e scherzose… uno spaccato insomma della nostra vita quotidiana; un quadro direi ‘impressionista’ dove la natura viene riproposta con questi tratti non nitidi ma che lasciano all’osservatore la giusta fantasia per vederci quello che più ama scoprire”.

Che rapporto hai con il camminare “lento”?

“Il mio è un continuo rapporto con la lentezza… a tavola termino mezz’ora dopo dei parenti e quando andavo a mensa davanti a me passavano tre turni di impiegati; non riesco ad essere più veloce ed inoltre amo proprio gustare ed assaporare il cibo così come leggere con lentezza un libro, fare le faccende molto lentamente, anche se cerco di arrivare sempre in fondo ad un impegno preso. Con il cammino è la stessa cosa, non sono uno che corre lungo i sentieri e non mi metto certamente quegli apparecchi nelle orecchie per ascoltare musica o registrazioni varie … vivo la strada passo per passo osservando la natura, ascoltando gli uccelli, seguirne il volo, cercando di capire da che parte arriva il vento ed anticipare magari un possibile acquazzone, però ho di bello che quando parto per una meta, soprattutto in montagna per un rifugio, comunque arrivo sempre in fondo anche se la difficoltà è superiore alle aspettative. Mi riposo di solito in piedi appoggiato al bastone che mi fa sempre compagnia poi si riparte sia che ci voglia ancora mezz’ora, o un’ora o altre due ore.  Naturalmente io ci metto una grande tenacia e volontà, poi sarà il tempo a darmi dei segnali in futuro”.

 Le poesie nascono in dialetto o in italiano e poi vengono “tradotte” in vernacolare?

“Io scrivo spontaneamente in dialetto poi, anche se lo faccio a malincuore, traduco il testo in lingua anche se ciò comporta la perdita della freschezza e spontaneità dei versi in dialetto; ho avuto la fortuna (o sfortuna perché ormai sono diventato ‘un ragazzo di una volta’), di nascere subito dopo il passaggio del Fronte della Seconda Guerra Mondiale e in quegli anni di povertà, ma anche di serenità e solidarietà, la vita si viveva in dialetto: nel mio piccolo borgo dei ‘Casetti’ di Serravalle il fabbro, il calzolaio, il sarto, il falegname, ma anche il bottegaio, lavoravano a porte aperte, sui marciapiedi, e si davano il saluto, si scambiavano le notizie, a volte anche qualche parolaccia se il lavoro non andava bene… tutto rigorosamente in dialetto”.

Si può parlare di dialetto sammarinese oppure è una sorta di “romagnolo” mescolato al marchigiano?

“Non sono uno studioso del dialetto pur amando scrivere e parlare in dialetto fin dalla mia prima infanzia. Conosco amici studiosi del dialetto romagnolo che hanno scritto testi di centinaia di pagine sui vari dialetti ‘romagnoli’ o meglio sulle varie ‘parlate’ romagnole che – come scriveva il grande studioso Friedrich  Schurr che dà ancora il nome al periodico ‘La Ludla’ dell’Associazione ‘Istituto Friedrich Schurr’ di Ravenna – attraversavano e attraversano tutta la Romagna e non solo, per confluire in un unico ceppo. Sicuramente il dialetto che si parla nella nostra piccola terra ha avuto influenze anche da fuori confine, dal vicino Montefeltro, dalla vicina riviera romagnola, dai frequentatori fin da tempi antichi delle storiche fiere del Castello di Borgo Maggiore. È noto che anche nei nostri piccoli borghi ci sono tutt’oggi diversità di parlate, di accenti, di pronuncia: facciamo solo l’esempio del vento del garbino che in Città lo chiamano ‘e’ garbèin” mentre a Serravalle tutti lo pronunciano ‘e’ garboin’”.

 

 Come vivono il dialetto i più giovani?

“Vorrei dire che quasi non lo vivono , ma voglio essere ottimista ed è anche per questo che da ormai quarant’anni mi impegno a tramandare il dialetto, soprattutto a scuola nelle numerose occasioni che ho di andare in mezzo ai bambini delle elementari a parlare delle nostre tradizioni, parlando loro dei modi di dire, declamando alcune mie poesie che parlano del Natale, della neve, della mamma, dei nonni. Poi ho iniziato a proporre dei laboratori dialettali anche itineranti, ai quali i bambini partecipano con entusiasmo; ma ci sono due ostacoli quasi insormontabili alla conoscenza del dialetto da parte dei più piccoli: il primo ostacolo è costituito dalla mancanza di dialogo tra i nonni e i nipoti. Noi un tempo avevamo un rapporto diretto e costante con i nostri anziani e ascoltavamo ogni giorno le parole che ci indirizzavano, sia che fossero parole dolci per un complimento o una carezza, sia che fossero sgridate e rimproveri. Il secondo e più grave ostacolo è rappresentato dall’utilizzo in modo esagerato dei mezzi di comunicazione moderni come il cellulare, il computer, Whatsapp, e altre diavolerie che rimbambiscono i ragazzini in un’età che dovrebbe ancora essere dedicata alle favole, al gioco all’aperto, allo sport, alle camminate”.

Sappiamo che hai percorso il Cammino di Santiago e poi quello del Titano. Cosa ti hanno dato queste due esperienze? E cosa hai restituito a questi luoghi?

“In effetti negli anni 2009 e 2014 con alcuni amici ho potuto realizzare un grande mio sogno che era quello di camminare sulle orme degli antichi ‘Pellegrini’ che fin dal Medioevo andavano verso Santiago de Compostela, la località dove misteriosamente erano state ritrovate le spoglie dell’Apostolo Giacomo il Maggiore, il primo evangelizzatore cristiano in Spagna. L’emozione per il ‘camino’, come lo chiamano gli spagnoli, è indescrivibile e solo andandoci – anche per un solo tratto – si può comprendere… poi la ricchezza culturale dell’intero tragitto che va dai Pirenei francesi fino alle coste della Galizia per circa 800 chilometri, è una continua meraviglia: Cattedrali gotiche , chiese romaniche in ogni dove, castelli Templari, foreste, Abbazie e monasteri antichi… poi la grande amicizia con i ‘viandanti’ che provengono da tutto il mondo, gli ostelli, la solidarietà delle popolazioni lungo il tragitto.

Nel suo piccolo ‘Il Cammino del Titano’ – spero che le Istituzioni Pubbliche abbiano a cuore questa passione che alcuni giovani in particolare portano avanti con entusiasmo, ho avuto modo di conoscere alcuni di loro tra i quali Andrea Severi ed altri – ha le stesse finalità e motivazioni: tornare a camminare nella natura, apprezzare le cose semplici e genuine che rendono l’uomo e la donna liberi di essere pienamente se stessi. Magari innalzare anche una preghiera al Creatore nel silenzio dei sentieri, in mezzo al verde e a ciò che più ci fa tornare ad essere persone complete… la natura e la terra. Io ho ricevuto tantissimo da queste esperienze e credo proprio che non riuscirò mai a restituire anche in minima parte questa ricchezza, però ho sempre dato a questi sentieri il rispetto e la dignità che l’uomo deve all’ambiente che lo circonda, e se ci penso anche un po’ di amore… sì io amo il ‘cammino’ e amo fortemente essere ‘viandante’ sempre in direzione di una meta”.

Alessandro Carli